CAPITOLO I

ORIGINI E FORMAZIONE DEL DECADENTISMO ITALIANO

Esistono nella storia di ogni nazione due tradizioni: una tradizione largamente spirituale, formata nel vivo delle varie esperienze di civiltà e perciò divenuta naturale, nucleare, non aristocratica; e una tradizione letteraria che contribuisce a formare la prima e che da essa trae origine, ma piú esemplare, piú aulica, piú distaccata dal flusso continuo della vita nazionale. La prima non è mancata in Italia dopo il romanticismo e vi continua tuttora, viva e chiara in ogni opera di scrittore che approfondisca le proprie qualità naturali, che veda netto nel paesaggio essenziale delle proprie visioni. La seconda è, per suo carattere, meno duratura, non radicata in ogni punto della spiritualità nazionale, ma fortemente influenzante ogni nuova espressione letteraria.

Nessuna nazione ha avuto una tradizione letteraria cosí lunga, costante, principale come quella italiana, formatasi con il Petrarca, il piú grande letterato della nostra poesia, sopra la preparazione del linguaggio convenzionale del dolce stile novo, perpetuatasi nel petrarchismo e nei modi petrarchisti dei nostri poeti fino al Leopardi. Nella poesia del quale la maniera petrarchesca è rilevabile non solo nelle poesie giovanili, ma anche nella poesia degli ultimi grandi canti.

Questo persistere vitale di una tradizione letteraria spiega il carattere particolare del nostro romanticismo, che, malgrado le sue innegabili affinità con gli altri romanticismi, si mantiene il meno europeo e il meno rivoluzionario di tutti. Imperniato sul forte rilievo della personalità, che lo accomuna alla essenza piú intima del romanticismo, e nutrito di molti tra gli utili miti romantici (la forte esigenza di originalità religiosa a base dell’arte, l’aspirazione alla felicità, il carattere di storia sacra, la ribellione al moralmente estrinseco), manca, pur nella sua aspirazione all’assoluto, di certi lati piú spinti, piú nuovi del romanticismo nordico e francese; manca del senso dell’ironia e del giuoco, del forte animismo della natura e soprattutto di quella vena mistica che spiega radicalmente l’intima parentela del romanticismo col decadentismo.

Mancano alla nostra letteratura romantica sensibilità del tipo di quella di un Novalis, di un Keats e magari di uno Chateaubriand. Manca l’acquisizione teorica di un nuovo misticismo (forse se ne potrà vedere qualche accenno nel Tommaseo) e quindi lo sviluppo pratico di nuove ricerche formali, la trasformazione in arte di affinamenti sensuali. Da noi la tradizione letteraria era cosí compatta da adeguare a se stessa il nuovo spirito romantico e da mantenerlo in quella misura costruttiva di stampo cattolico (la parola va presa in senso naturalmente metaforico) che ci rappresentiamo al solo ricordare l’arte di un Foscolo, di un Leopardi, di un Manzoni. Foscolo, Leopardi, Manzoni, romanticissimi per gli ideali che animano le loro opere e per l’intensità con cui essi li propugnano, non hanno certi abissi intimi di analisi, certe sensibilità esasperate che troviamo negli altri romantici stranieri.

Mancano insomma nel nostro romanticismo quegli elementi mistici e sensuali che possono considerarsi come prodromi (non cause) di decadentismo. Il nostro romanticismo, fedele alla tradizione italiana, non ha indagato nel torbido caos del mistero e della sensualità e s’è mantenuto sempre in una chiara atmosfera latina, in una spiritualità di costruzione e di certezza. Mancanza di nuovo, di europeo e impossibilità d’altronde di descrivere, per il nostro romanticismo, una patologia quale fu svolta per i romanticismi stranieri (il libro del Praz fra i casi patologici romantici non può annoverare nessun romantico italiano). I grandi romantici nostri conservano un’immensa fede nei mezzi espressivi, nell’organismo spirituale del linguaggio tradizionale, che superano solo in grazia della loro personalità; e, mentre il campo dello spirito li appaga in pieno, non c’è in essi la minima sfumatura intellettualistica, nulla di quei programmi della musica e della molteplicità espressiva che vanno d’accordo con le complicazioni sensuali dei romantici nordici.

L’ultimo nostro grande poeta, il Leopardi, che pure sentiamo modernissimo, non ha nella sua poesia un attimo di adorazione dell’ineffabile, un qualsiasi sviarsi dietro ai problemi sottili e indagatori della propria sensibilità.

Dolce e chiara è la notte e senza vento...

Dolcissimo possente – dominator di mia profonda mente...

Tutto è orchestrato potentemente, alla Beethoven, senza esitare sui margini, senza inoltrarsi nella nebbia preziosa dell’analisi. Tutto è talmente espressione in quel mondo sinfonico che nessuna critica potrà mai contrapporvi poesia-musica e poesia-ragione, valori fonici e valori intellettuali.

In Leopardi, malgrado la sua spaventosa profondità, che supera con l’appassionatezza di un sentimento l’ambito della piú acuta intelligenza, non c’è il senso del gouffre (basta ripensare all’Infinito, romanticissimo e pur cosí primitivo, scandito quasi logicamente), il bisogno di un nuovo regno metaspirituale. Osservata questa specifica differenza del nostro romanticismo, che è comprovata anche dall’importanza preponderante che hanno in esso l’azione e gli ideali sociali, politici (Mazzini, Gioberti) di fronte a movimenti puramente letterari, è legittimo ritenere che la nascita stentata del nostro decadentismo è appunto in funzione dello sfasamento e del diverso carattere del nostro romanticismo. A voler ricercare degli antenati indigeni al nostro decadentismo, si potrebbe tornare a ricerche sul petrarchismo d’imitazione, sul secentismo (tentativi di rompere il fare classico, di uscire dall’ispirazione classica verso acutezze, perversioni di pratica sensuale) o sul preromanticismo.

Ma se la nostra sensibilità, a posteriori, ritrova qua e là degli accenti che possono ricordare quelli tipicamente decadenti, bisogna anche riconoscere che in quei casi non si va mai oltre una vaga fantasticheria musicale, senza suggestione intima, senza origine di mistero, senza la coscienza della scoperta feconda di un nuovo regno spirituale. E si vedrà d’altronde che i momenti piú facili a prestarsi a queste indagini sotterranee son quelli in cui la nostra letteratura e la nostra civiltà si son trovate piú a contatto con le altre letterature, e in cui i fenomeni letterari hanno avuto piú larga natura europea: cosí il Seicento, il preromanticismo, il primo romanticismo. È infatti alle origini del nostro romanticismo che i contatti reali e materiali con altre letterature sono maggiori; basti pensare al «Conciliatore» e alla prima attività critica del Berchet. Poi finché il nostro romanticismo si rinnestò nel gran tronco della tradizione e mantenne, grazie a delle grandi personalità, un suo tono originale, quelle prime tracce esotiche e congeniali ai germi di decadentismo delle altre letterature rimasero inoperose. Tralasciando dunque quelle ricerche in lontananza, in cui anche metodicamente nutro ben scarsa fiducia, poiché in esse elementi realmente vivi solo nelle individualità poetiche divengono astratte ed inesatte concatenazioni, il mio studio vuole limitarsi a cogliere nell’ambiente della decadenza romantica la formazione del nuovo animus poetico, la nascita del vero decadentismo.

Le condizioni speciali del nostro romanticismo spiegano sufficientemente la lunga durata dell’incertezza di cui ora ci occuperemo, e le diversità del nostro decadentismo fino alla chiara coscienza affiorata solo nell’epoca dei poeti nuovi, dei poeti che hanno assimilato l’iniziazione mallarmeana.

Mentre nelle altre letterature la presenza di filoni mistici, declinato l’idealismo romantico, provocò l’immediato sorgere di tendenze di stampo chiaramente decadente e rivoluzionario, da noi, dopo la scomparsa dei grandi romantici e la tensione essenzialmente politica, non c’era nulla su cui costruire. Chi venne dopo sentí il bisogno o di ripetere fiaccamente i grandi del primo Ottocento, riducendoli alle esigenze moralistiche di una società borghese, o di riattaccarsi alle origini stesse del romanticismo, al primo tentativo di europeizzare la nostra poesia.

Non c’era molto da prendere, nel senso nuovo, dalle prime imitazioni del romanticismo nordico: non si potevano che ripetere le ballate, quell’andatura fra popolaresca e rivoluzionaria che, dopo il completo svolgimento del romanticismo, dopo uno Heine e un Coleridge, sapevano di stantio e di provinciale.

Infatti la nostra letteratura, nel periodo tra Leopardi e D’Annunzio, si fa tipicamente provinciale: ripetizione di motivi preromantici, arcadici, sentimentalismo letterario senza profondità di vita e di pensiero, e qua e là esigenza di un nuovo che non si indovina se non nelle forme mal comprese, svisate dei primi stranieri che passarono i confini.

Il romanticismo semmai continuava nei politici, negli ideologi, nei critici, in quelli che volevano formare la nuova civiltà italiana; e non mi pare di azzardar troppo avvicinando il Carducci piuttosto ad un movimento culturale-civile che non a nuove correnti poetiche.

Si potrebbe astrattamente costruire un fenomeno Carducci e non sapere dove collocarlo: della tradizione classica è già fuori in gran parte, del nuovo non ha sentore. Pare veramente sfasato se si confronta col suo parente Hugo e se si pensa che le Odi barbare nascono dopo Les fleurs du mal, Jadis et naguère, Après-midi d’un faune, Le bateau ivre[1]. Perciò anche la sua influenza letteraria è scarsa quanto a profondità, e si riduce semmai alla formazione di una retorica patriottarda e professionale che i decadenti rinnegano. Esula dunque dal nostro studio, e semmai ci può interessare notare come la sua poesia, se non è nel nuovo, è però già fuori della tradizione letteraria classica.

***

Bisogna, ai fini del nostro studio, distinguere nettamente decadenza del romanticismo (quello che di solito si chiama ultimo romanticismo) e decadentismo, che di solito vengono confusi con la massima disinvoltura. Ed è facile cadere nell’equivoco quando, come notammo nelle prime pagine, si giudichi la poesia con criteri di condanna morale e ci si affidi ad una facile diagnosi patologica del periodo postleopardiano. Allora può sembrare che fra decadenza di romanticismo e decadentismo differenza non vi sia, mentre per noi, che vogliamo vedere storicamente questo periodo, è essenziale distinguere fra decadenza del romanticismo (esteriorizzamento di atteggiamenti e schemi romantici, non piú sostenuti da reale romanticismo) e decadentismo (nuova concezione della poesia, fondata su di un preciso senso della vita). Ed è proprio dalla separazione di questi due momenti che il nostro studio trae il suo punto di partenza.

Certo, nella letteratura francese le origini del decadentismo sono piú chiaramente documentate da dichiarazioni coscienti, dal senso del nuovo (le riviste che prendono i nomi di battaglia: «Le décadent», la «Revue wagnerienne») e da una grande personalità (Baudelaire) che tiene la sommità fra i due versanti. Da noi invece, a causa della diversità del nostro romanticismo, il periodo fra il vecchio e il nuovo è lunghissimo, una vera coscienza decadente non sorge che tardi, decadenza del romanticismo e primi accenni di decadentismo si mescolano per molto tempo. Forse perciò è spiegabile l’abbaglio della critica piú corrente che ha visto in tutti i fenomeni letterari del secondo Ottocento solo una decadenza romantica.

L’ultimo romanticismo, privo di vere individualità poetiche, che potessero risolvere in arte il dissidio fra uno spirito superato e un’esigenza non appagata, è in sostanza limitato a languide ripetizioni di elementi tecnicamente romantici (ballate, novelle poetiche) in una temperie umana di scarsissima vibrazione. Gli ideali, di cui è sostanziata la grande letteratura romantica, si riducono nei limiti di un meschinissimo mondo provinciale e borghese, senza ribellioni, ingenuamente moralistico. Questa angusta vitalità, che si mostra chiaramente nei due massimi rappresentanti del periodo, Prati e Aleardi, non poteva sostenere una vera poetica, ma solo limitate deviazioni di sentimenti in forme svuotate del loro spirito. Cercano vita nella parte piú estrinseca del romanticismo e fondano la loro originalità sulla propria figura di bardo. Letterati e d’altronde incapaci di supplire con una intelligenza critica alla mancanza di potenza creativa, Prati ed Aleardi ci rimangono a testimoniare la povertà della decadenza romantica.

Chi volesse cercare ad ogni modo degli accenti di decadentismo in questi poeti potrebbe trovare nel Prati certi momenti di sdolcinatura calligrafica, di raffinatezza sensuale:

Minuscola formica

o ruchetta d’argento

sarà mia dolce amica...

(Incantesimo).

e nell’Aleardi, oltre quei languori sentimentali che preludono al peggiore Fogazzaro («si guardan sempre e non si toccan mai»), una promessa di raffinata perversione non mantenuta nella morte della bella peccatrice per il malefico profumo dei fiori:

... Il gambo

lieve lieve allungando una magnolia

al labbro s’appressò cupidamente

de la sopita, e vi depose il bacio,

onde l’aveva il donator pregata.

Ma in quello istante pur non altrimenti

la cardenia movea, movea l’acuta

tuberosa ed il giglio; e ognun credeva

in quella delicata ora di colpa

d’essere non visto, ognun d’essere il solo.

Ché la divina sognatrice, accesa

da volubili febbri, il collo e i crini

acconsentiva e il sen nitido a tutti

perfidamente con egual misura.

(È morta. Fantasia).

Si può anche ammettere un certo che di decadente e classicistico insieme, ma non si può arrivare a fare dell’Aleardi come del Prati «due parnassiani in conflitto coi propri doveri di poeti civili», come dice il De Lollis[2], che in tutto il suo saggio, mediante continui richiami di poeti francesi parnassiani, sembra illuderci di una vera fioritura di nuova coscienza artistica (l’arte per l’arte) negli ultimi nostri romantici; il che mi pare una forzatura antistorica, negata continuamente dai toni ingenui, sentimentali di quei poeti. Si cita di solito il passo, veramente bello, dell’Aleardi su di una statua greca:

Al viatore

che vaga per alcuna isola greca,

mezzo tra i fiori e l’eriche nascosa

appar talvolta, giovinetta eterna,

una ninfa di Fidia. E sí lo vince

la leggiadria de le scolpite membra

da spasimar qual di fanciulla viva.

Le siede presso, la contempla e quasi

arde, le parla, la desia: ma passa

pur non di meno il venticel che spira

da Giacinto o da Scio, senza che un solo

riccio si mova sul marmoreo fronte

de la bella di Paro.

(È morta. Fantasia)

ma dov’è l’impassibilità di un Leconte de Lisle, quello scarnificarsi in una dignità decadente, paurosa di mosse emotive come sono molte di quelle del passo riportato, ancora romantiche? Si tratta cosí, per lo piú, di raffinamento di sentimentalismo romantico, che dura sino alla fine del secolo. Ché noi crediamo di trovare nel Fogazzaro peggiore, piú che un accento decadente, dei caratteri ingenui dell’ultimo romanticismo, i quali piú chiaramente risultano dalle sue liriche e da Miranda. Malombra stessa con la sua complicazione infantile è piú vicina a certo torbidume romantico del primo Ottocento che non al fantastico pauroso dei discendenti di Poe.

Poiché questa corrente di ultimo romanticismo già in se stessa incerta e compromessa, e i preannunci reali di decadentismo continuamente confluiscono negli stessi artisti, l’esame del periodo, che va dal ’60 circa fino a D’Annunzio, richiede una vigilanza costante. Periodo che vive di squilibrio come tutti i periodi di transizione. Non si trovano dei netti valori personali che oltrepassino la valutazione complessiva, non si perde l’aspetto del vecchio e non si supera la posizione nuda e cruda dell’esigenza del nuovo. La tradizione letteraria, non piú vivificata, resta, ma come un peso, come un limite non piú intimamente sentito.

I motivi di costruzione e le responsabilità si confondono, e bisogna attentamente distinguere ciò che è pura ripresa di romanticismo da ciò che è preannuncio di nuovo. Ad ogni modo nel bisogno di riprendere quegli intenti piú torbidi che il nostro romanticismo in linea di massima scartò, in grazia della sua qualità tradizionale, c’è senza dubbio già un’esigenza di modernità ingenua, non critica, un volersi mettere sul piano delle altre letterature, che sorgevano dopo un forte pathos di misticismo romantico. Cosí il Boito, cantando l’autopsia di una fanciulla assassinata, voleva essere baudelairiano, ma in realtà si avvicinava come ingenuità alla giovanile e romanticissima Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo del Leopardi. C’era dunque anche nei piú avanzati un naturale squilibrio fra l’aspirazione sincera al nuovo spirito poetico e l’eredità letteraria, le radici indigene che facevano loro scambiare, per similarità di contenuto grezzo, il vecchio per il nuovo.

Io credo perciò che l’influenza delle letterature straniere non sia decisiva per il sorgere intimo dell’esigenza decadente, ma semmai sull’indirizzo di quelle vaghe aspirazioni, sull’effettivo loro concretarsi. In questo senso le influenze straniere sono essenziali ed ineliminabili come in nessun altro periodo della nostra storia letteraria.

In un primo tempo il provincialismo dei nostri scrittori fu tale che la loro cultura esotica si arrestò a pochi e spesso male scelti rappresentanti del nuovo spirito, cosí che riuscirono solo ad orecchiare malamente i nuovi modi della poesia senza afferrarne il motivo centrale, giustificatore, senza domandarsene l’intima necessità, ma anzi prendendo per necessità il loro vago e negativo senso di irrequietezza. Del resto la conoscenza dei romantici stranieri fu anch’essa molto tardiva: molti dei romantici tedeschi e inglesi furono tradotti in Italia solo alla metà del secolo, e quanto alla comprensione, nel 1873 il Tommaseo, a proposito di una traduzione byroniana di Carlo Faccioli, si esprimeva cosí, con un moralismo che è comune all’ultimo romanticismo italiano: «La perizia che Ella, signore, nel tradurre dimostra, vorrei fosse spesa in miglior opera che nel Pellegrinaggio d’Aroldo. Que’ sentimenti non sono da proporre a’ giovani italiani; né l’esagerazione e l’abbondanza, di cui pecca sí spesso quell’ingegno potente, è cosa imitabile a noi».

Perduto il senso nobile della tradizione, che diventa per i poeti di transizione un mondo imposto da distruggere senza conoscere però le vie del nuovo regno, si trovavano in uno stato iniziale di incomprensione che li conduceva ad un lungo sfasamento di fronte alle letterature straniere, ormai genuinamente moderne e coscienti della loro modernità. Perciò, mentre la loro ribellione impulsiva si esautorava per il proprio carattere puramente volitivo e, d’altra parte, non poteva del tutto non lasciarsi soggiogare di quando in quando dalla stessa tradizione, il bisogno del nuovo ad ogni costo, sia pure bisogno ineliminabile, non lasciava loro chiarezza di scelta, li precipitava su di un contenuto bruto che prendeva ai loro occhi, per la sua straordinarietà, quasi immediata e naturale incarnazione artistica. È quindi quell’aria impaziente, ma poco virile, ingenua, stonata, che colpisce sgradevolmente la nostra sensibilità alla lettura di poeti che parvero ai loro contemporanei il fior dell’audacia e della novità.

***

Per scendere ad un concreto esame di questo periodo caotico e provvisorio, dobbiamo avvicinarci al primo ambiente di aspetto decadente: la Scapigliatura milanese. E veramente in nessun gruppo letterario di questo periodo sono piú chiari i limiti, ma soprattutto gli accenni positivi di una nascente coscienza decadente.

Anzitutto è notevole il fatto stesso del cenacolo e delle somiglianze di atteggiamenti poetici e morali che difficilmente troveremmo fra gli altri poeti dello stesso periodo. Anche la loro qualità comune di settentrionali, lombardi (Milano fu la patria del movimento romantico italiano) potrebbe dar luogo a osservazioni che non sono del tutto inutili quando si limitino a semplici costatazioni empiriche. La loro compattezza si fa distinguere fra tanta confusione di poeti mediocri, e, nella loro caratteristica di cenacolo, essi costituiscono l’unico gruppo che presenti somiglianze esteriori con i cenacoli decadenti delle altre nazioni.

Dovremo dir subito per quanto riguarda l’ambiente degli scapigliati che in realtà si tratta ancor piú di una bohème romantica che di un cenacolo decadente. Certe loro spregiudicatezze e spavalderie di atteggiamento sono infatti estremamente provinciali e limitate: malgrado i loro suicidi, il loro uso di alcool e di assenzio, essi mancavano veramente di quel sottile senso di perversione, di quella coscienza di poeti maledetti, di angeli caduti, di santi sublimantisi in sensazioni colpevoli e innaturali, che è la sagoma morale dei veri decadenti. E soprattutto manca loro il punto centrale, la conquista che provoca gli atteggiamenti di vita dei decadenti: la scoperta del subcosciente che capovolge l’esigenza morale (il dover essere diventa in sostanza l’essere, essere misterioso e infallibile), che anima, scoprendo i legami sottili delle corrispondenze, il nuovo regno delle sensazioni (non materia, non spirito, ma terzo regno originale e premateriale, prespirituale) e richiede l’assoluta identità di vita e arte.

Di fronte a un Lautréamont, a un Rimbaud, che impongono come una nuova dialettica per la comprensione del loro spirito, gli scapigliati, ubriaconi e suicidi, restano dei novellini, cui una speciale pratica non riesce a creare un accento che li personalizzi. Gli scapigliati sono degli abnormi che non hanno una base profonda per la loro libertà. Perciò sono ancora piú negativamente che positivamente nella nuova atmosfera. Ad ogni modo sono i primi in Italia a mostrare in maniera chiara uno squilibrio morale, una sfiducia negli ideali romantici, che li distingue nettamente dai Prati e dagli Aleardi.

Sotto il primo influsso del materialismo massonico, scientificista, gli scapigliati conservano ancora degli entusiasmi romantici, che non permettono loro la creazione di un mondo limitato, ma ben definito.

Se essi non giustificano dal profondo una vera identità di arte e vita, sono però i primi a introdurre nella poesia degli atteggiamenti brutali, volitivi che, se la abbassano ad una pratica di ribellione, servono però a sperdere quel che di falso e di letterario che si nascondeva nella tradizione non piú sentita vitalmente.

Hanno dunque un valore soprattutto storico e quasi nullo artisticamente. Ed è appunto il loro difetto di personalità che meglio ci fa vedere la loro importanza funzionale, la loro importanza come momento massimo di squilibrio, di equivoco fra le forme deteriori del romanticismo e le qualità della nuova poesia, di distacco volontario dalla tradizione verso uno spirito nuovo appena intravisto, verso un tentativo di europeizzamento e di modernità.

Perché lo sforzo massimo di questa Italia, appena unificata, è di sprovincializzarsi, di farsi europea, di non restare a sé nella compostezza aulica del passato.

Gli scapigliati sentirono energicamente questa esigenza di modernità da raggiungere ad ogni costo, e fecero un salto senza punto d’arrivo e il cui valore è tutto in sé, nel programma rimasto tale, per la mancanza di una concreta novità. In tutte le loro opere si sente lo stimolo della volontà indiscriminata, che non lascia campo ad una sensibilità del resto assai mediocre. Hanno bisogno di sentirsi moderni, nuovi, e Antonio Ghislanzoni, presentando Tavolozza di Emilio Praga, la annunciava cosí: «finalmente abbiamo in Italia un vero poeta moderno». Ma sarebbe stato imbarazzato lo stesso Ghislanzoni a chiarire che cosa intendesse per poeta moderno. Certo avrebbe risposto che moderno voleva dire ribelle («Praga cerca nel buio una bestemmia / sublime e strana!», diceva Boito) ad ogni legge, ma sarebbe rimasta una definizione negativa come negativa è la posizione di tutti gli scapigliati, piú ribelli che costruttori.

Naturalmente entro l’atmosfera della scapigliatura a noi interessano soprattutto i poeti: Boito, Praga, Camerana, e caso mai Tarchetti, il piú malato e il piú riecheggiante lo spirito morboso del romanticismo[3]. Gli altri, solo narratori, interessano per alcuni principi che preludono al decadentismo, come quello dell’affinità delle arti nel Rovani, ma formalmente (se si eccettua il Dossi) non superano di molto le tendenze veriste che si venivano mettendo in luce. A proposito di verismo sarà bene fin d’ora notare l’importanza che esso ebbe anche per la poesia e la sua intrusione in molti di questi poeti, in cui era caduta la distinzione fra prosa e poesia e non si affermava ancora una libertà intimamente regolata. Il verismo, introducendo nella poesia il particolare, la cura prosastica, ha contribuito potentemente a spezzarne la tradizione rigida, decorosa.

Cosí negli stessi scapigliati si afferma un grande gusto per i bozzetti (tutta la Tavolozza di Praga), per le pitture minute d’ambiente, con un linguaggio volutamente facile, quasi riproduzione fonografica del parlato comune. Ma dove il verismo concorda pienamente con la tendenza innovatrice degli scapigliati, e con il loro scambio fra spunti romantici e l’aspirazione alla nuova poesia, è nella scelta dei soggetti macabri, turpi, malati, ribelli. La loro patologia li involge in una autobiografia esasperata ed oggettivata in sogni morbosi (morgue, sala operatoria, visioni di pazzi e alcoolizzati, teschi, cadaveri, vermi, un armamentario romantico che non delude), e d’altra parte la loro rivolta estetica alla tradizione li conduce ad un mondo che essa sdegnava per un alto senso di moralismo estetico.

E per reagire alla tradizione si appigliano al brutto, all’indecoroso, senza sentire che là si trattava di nobiltà della forma, qua di bruta realtà non differenziata che da morbosità psicologica.

Gli scapigliati non riescono a formare una vera corrente poetica, non avendo dietro di sé quell’esperienza di civiltà romantica che era in possesso delle altre letterature decadenti. In certo senso, proprio essi scontano la mancanza di elementi mistici e torbidi del nostro romanticismo, mentre d’altronde essi per primi vogliono programmaticamente avvicinarsi al nuovo, al superamento del romanticismo. Cosí non sanno trovare come via d’uscita dalle forme tradizionali, composte, auliche (e pur nella lotta idoleggiate come tali: «E non trovando il Bello / Ci abbranchiamo all’Orrendo», dice il Boito in una sua poesia al Camerana), se non lo sciatto, il disordinato, il realisticamente brutto.

Cosí piú che rinnovare la costruzione e i modi euristici della poesia, si riducono a sconvolgere, a straniare le forme tradizionali, in cui, d’altra parte, ricadono appena non sono piú sostenuti dal senso polemico del nuovo.

Quando enunciano programmi, guardandosi ed avendo chiaro il procedimento volitivo, il disordine morale da contrapporsi alla sanità passata, si riconosce in essi la nuova volontà decadente.

Noi siamo i figli dei padri ammalati;

aquile al tempo di mutar le piume,

svolazziam muti, attoniti, affamati,

sull’agonia di un nume,

vociava il Praga, che nel Preludio a Penombre si esibisce reprobo poeta; e Boito, esagerando l’importanza dei nuovi tentativi:

Torva è la Musa. Per l’Italia nostra

corre levando impetuosi gridi

una pallida giostra

di poeti suicidi.

Alzan le pugna e mostrano a trofeo

dell’arte loro un verme ed un aborto...

(A Giovanni Camerana)

Ma potrebbero, oltre queste intenzioni, proclamare una loro poetica? È infatti sul metro della poetica che noi possiamo riconoscere i veri decadenti dai semplici annunci di nuovo e dagli ultimi romantici. E la mancanza di una vera poetica organica, coerente, è la condanna degli scapigliati, la ragione del loro insuccesso, della loro permanenza fra le curiosità letterarie. La volontà del nuovo li portava a sciatterie senza significato, bambinesche:

Nelle eterne solitudini

ride il sole come un pazzo...

(Praga, Dolor di denti)

o ad audacie tutte esteriori, grafiche (gran parte di Re Orso), non seguite dalla coscienza di fare qualcosa di piú, di essere non solo fuori della legge, ma in una nuova legge.

Dei tre poeti del gruppo, Boito, Camerana e Praga, il primo, senza dubbio il migliore, si riattacca palesemente ad una vena romantica che in Italia non aveva avuto fortuna: per limitatezza critica e per esigenza naturale sentiva come novità quelle forme romantiche che, in altri paesi abusate, per essere restate piú estranee alla nostra letteratura mantenevano un maggior sapore di esotico, di nuovo. La sua posizione è caratteristica per tutta la scuola: credendo di fare «arte dell’avvenire», e fiutando quell’orrido fantastico che attraverso Poe era filtrato nella poesia di Baudelaire (una personalità attraverso cui si è sempre costretti a passare per entrare nel decadentismo), ritornava a quel gusto da ballate bürgeriane che aveva impressionato inizialmente il nostro Berchet.

Anche il suo apparente wagnerismo (musica e poesia, poesia che si vuol fare musica) si risolve in realtà in ricerche musicali prettamente romantiche con una sorta di ironia grottesca che stroncherebbe qualunque vera unità mistica di Wort-Ton-Drama:

Chi úlula? Un’upupa – del lito montano.

Chi vola? una nuvola – che va all’uragano.

Chi passa? una foglia – dell’irta mandragola,

un grillo che cigola, – il vento che miagola.

(Re Orso, Incubo)

È un wagnerismo senza le radici nel mistero sensuale della notte.

In lui come negli altri scapigliati non era dunque che disordine, aspirazione al nuovo, presentimento malcerto di decadentismo e soprattutto, in lui piú che in ogni altro, esaurimento rapido di quei motivi romantici che sembrano indispensabile preannuncio di una vera coscienza decadente.

Nel Camerana, il meno scapigliato di tutti, per quanto buon suicida e bevitore di cartello, ci è sembrato di trovare veramente degli spunti di decadentismo assai notevoli. Anzitutto è dichiarata in lui l’imitazione di Baudelaire, meno per i soggetti e piú per la metrica. Ha imparato per il primo da lui a snodare un verso melanconico, fuori delle misure tradizionali:

Il tugurio è lugubre, la campagna è profonda.

Il tugurio è una tetra macchia meditabonda;

come una grande affranta la campagna sospira.

E quell’orgia di brace, la campagna profonda,

il tugurio, funerea macchia meditabonda,

e dei tronchi e dei rami le buie forme nude

si specchian capofitte nella plumbea palude.

(Note morenti)

E se (tanto era incerto il senso poetico di questi scrittori) a un certo punto passa dalla scuola di Baudelaire a quella di Victor Hugo, continua però in ricerche di tipo decadente:

Cerco la grigia strofa indefinita,

la indefinita strofa orizzontale,

in cui si volga con cadenza blanda,

come sui mesti orizzonti in Olanda,

dei pensosi mulini a vento l’ale,

il fascinante sogno sepolcrale.

(Cerco la strofa che sia fosca e queta)

Strofa orizzontale, pensosi mulini, e il paesaggio sensibilizzato d’Olanda, cosí tipicamente decadente.

Il Camerana, meno esagitato dei suoi compagni di cenacolo, da cui fu del resto anche materialmente il piú lontano, è viceversa quello che, sia pure passivamente, con pochissima forza originale (e forse appunto per questa sua possibilità puramente recettiva), assimila meglio il tono baudelairiano, il tono della nuova poesia. È piú che altro consapevolezza tecnica, non comprensione del vasto mondo baudelairiano, ma insomma, storicamente, come preparazione ad una vera nascita di poetiche decadenti, l’opera del Camerana mi è sempre parsa molto significativa.

Del terzo e piú noto scapigliato, Praga, interessa al nostro studio soprattutto il volumetto Penombre, in cui i toni suoi piú quotidiani (la felicità di qualche bozzetto di Tavolozza) sono scomparsi di fronte all’influenza baudelairiana, alla ribellione scapigliata, e, sicuramente anche, all’influenza del romanticismo grottesco del Boito. Vedi Ancora un canto alla luna, che pare una scena del Mefistofele:

Gobba a ponente

luna crescente!

Fuori lucertole

e moscherini,

bruchi, larvucce

e farfallucce.

Lumache e rane,

fuor dalle tane;

il segno è certo,

tutti all’aperto!

Baudelaire è sentito al solito in maniera provinciale, in maniera pesante e contenutistica.

O donna fortunata ed infelice,

e a me non dice,

a me quell’occhio non dice l’amore,

dice il dolore;

il dolore dell’angelo esiliato,

e condannato

a subir la materia peccatrice;

o donna fortunata ed infelice!

(Dama elegante)

Certo la sua influenza sul Praga è capitale, sovrapponendosi all’ispirazione familiare, naturalistica, con cui aveva esordito, e confondendosi con la sua voglia di disordine, di perversione, di maledettismo cosí poco intimo. I suoi versi son quelli che piú continuamente mancano di un’ispirazione costante: c’è in essi la massima incertezza tra forme passate, tentativi personali, riecheggiamenti baudelairiani e boitiani. Qua e là spuntano dei versi, degli aggettivi che fanno pensare ad un subitaneo lampo di novità:

se la fanfara delle tue parole

mi profumasse...

Non un vero linguaggio che implicherebbe quell’accento unitario che noi abbiamo escluso categoricamente in questi poeti, ma illuminazioni di novità, che scaturiscono da una sensibilità tesa al servizio di impulsi rivoluzionari, aiutati in parte dalle conoscenze straniere, entro l’ambito di una mentalità provinciale.

Non si può trovare di piú nel gruppo degli scapigliati lombardi e, d’altronde, in confronto con i Prati e gli Aleardi e tanti altri riecheggiatori passivi dei detriti romantici italiani, il loro sforzo volitivo, alcuni sprazzi di presentimenti, acquistano un’importanza centrale nello studio dell’esaurimento del romanticismo e delle origini del decadentismo in Italia. Baudelairismo di contenuto, misto a romanticismo alla Tieck, mancanza d’un vero nucleo moderno, ma per lo meno tentativo di uscire dalle melense ingenuità dell’ultimo romanticismo.

L’influenza degli scapigliati sui contemporanei non si può dire vistosa, ma, mentre i toni piani del Praga si accomunano all’importante corrente realistica del Betteloni, l’atteggiamento ribelle e innovatore trova un discendente diretto e addirittura un legame col futurismo in G.P. Lucini, nella sua retorica di volontarismo decadente, quasi uno scapigliato ingigantito, fatto piú scaltro culturalmente e piú esasperato polemicamente.

È da notarsi in proposito che il Lucini nella sua Ora topica di Carlo Dossi tenta di spiegare la tinta decadente di quei poeti con ragioni di pessimismo civile, di sdegno patriottico verso una condizione politica e sociale meschina. In realtà se ne fa cosí dei precursori delle preoccupazioni civili da cui rampollava il suo decadentismo energico e imperialista.

Ma, se l’ambiente lombardo dopo l’unità inquadra benissimo gli scapigliati, non era un’angoscia civile che procurava il loro disordine, la loro irrequietezza. Erano ragioni dirò europee, e la punta civile era piú un ricordo del Risorgimento che una polemica sentita. Erano quei residui di romanticismo che gli scapigliati scontavano nel presentimento faticoso del nuovo.

***

Se negli scapigliati abbiamo trovato accanto a qualche accento di preannuncio un reale disordine, un disquilibrio continuo tra le forme vecchie, cui si ribellavano programmaticamente, e l’aspirazione a novità ancora informi, chiare solo come opposizione al vecchio e quindi chiuse sempre nella dialettica del passato, negli altri poeti predannunziani (e in molti contemporanei e posteriori al D’Annunzio[4]) la ribellione è meno voluta, non meno reale nella sua piú intrinseca esigenza.

C’è sempre da distinguere fra quelli che sono sul piano del Prati e dell’Aleardi e quelli che piú decisamente seguono l’istinto del nuovo e il fiuto delle letterature straniere. In genere anche in questi altri poeti si tratta ancora di un decadentismo piú di contenuto che radicale e nativo, sempre mancando quella speciale giustificazione intellettuale che troviamo già cosí sviluppata nei primi decadenti francesi o nei preraffaelliti. Quell’affinamento di sensibilità, che trovava modo perciò di legarsi con una intellettualità sinuosa aderentissima, era frutto di un’altra preparazione romantica e trovava il suo appoggio su grandi personalità, madri di decadentismo che, come dicemmo piú volte, la nostra letteratura non possiede.

Un rapido sguardo alla fisionomia dei poeti piú significativi del periodo ci convincerà sempre piú della loro incertezza e del loro fondamentale provincialismo. Una netta distinzione tra quegli artisti che piú restano al vecchio e quelli che si avvicinano di piú alle nuove poetiche si fa assai male, data la scarsa originalità personale degli uni e degli altri, e il confondersi continuo delle tendenze e delle influenze esterne. Ad ogni modo si sente, dopo un esame minuto, che certi poeti come il Panzacchi, il Cavallotti, il Rapisardi (diversissimi come temperamenti e come tono poetico) pure non possono darci nulla che abbia il gusto nella nuova poesia, e che essi lavorano, piú o meno clamorosamente, sul disgregamento effettivo degli ideali romantici, impiccolendoli, imborghesendoli: cito per tutti il Marradi[5]. Anche il Graf, che assume pose di nihilismi materialistici mal soddisfatti, mancanti della certezza lucida di simili motivi in certi parnassiani francesi (Henri de Cazalis, Louis Ménard...), in realtà non fa che disperdere l’alto tono leopardiano e rinselvarsi in romanticherie ingenue e prosastiche.

Del resto è proprio del Graf un saggio su Preraffaelliti, simbolisti ed esteti[6] che ci serve come di indice della generale incomprensione della nuova poesia da parte della critica alla fine del secolo. Accanto a frasi espositive passabili, ma riecheggiate probabilmente da critici francesi, vi spicca il gusto arretrato e l’ingenua furberia del provinciale che non vuol farsi burlare da ciò che non capisce: «Che alcune di tali elevazioni e trasfigurazioni d’anime sieno celie di capi scarichi, può darsi, anzi per il caso di A. Rimbaud è dimostrato...».

L’influenza benefica del realismo è stata abbondantemente notata in Vittorio Betteloni, che il Momigliano colloca anzi a capo di questo movimento prosastico[7]. A noi non pare di poter isolare concretamente una linea fra il Betteloni e i crepuscolari, né ci pare preminente la sua posizione. Anzitutto i suoi intenti sembrano puramente narrativi, senza lo sforzo di un nuovo linguaggio lirico, ma solo miranti ad avvicinare la poesia alla prosa (e quindi al solito un valore puramente negativo), poi il suo tono minore non è salvato da quella specie di malinconica ironia che giustifica i crepuscolari. Qua e là si avvertono come dei presentimenti del piú sciatto lirismo gozzaniano:

io ti veniva innanzi lento lento,

tu col sorriso allor mi salutavi...

(Canzoniere dei vent’anni)

ma per lo piú non si tratta anche qui che di prosa autobiografica di una evidenza tutta pratica e intrisa malamente con toni derivanti dal vecchio romanticismo:

Molto arrossendo il dono

allor mi fu promesso,

in picciolo, sommesso,

misterioso suono;

suon come d’ala uscente

dal già maturo nido,

come d’onda morente

sul vagheggiato lido,

come sottil sospiro

d’aura che move a sera,

con molle orma leggera,

per la campagna in giro.

(Canzoniere dei vent’anni)

Non si può negare al Betteloni una simpatica facilità e una sicura rottura delle forme vecchie, ma non si può neppure ritenerlo come l’iniziatore di quel movimento tipicamente decadente che fu il crepuscolarismo. Il fatto che in lui la scelta delle cose cantate (gli umili, i modesti amori) sia antitetica a quella della tradizione italiana è certo molto significativo in un disegno della transizione fra vecchio e nuovo, ma piú che da una rinnovata coscienza lirica dipende da un’invasione audace della prosa, del realismo allora imperante. E quindi la poesia prosastica del Betteloni o dello Zendrini non è che una preparazione negativa del vero decadentismo.

Ad ogni modo, sia pure negativamente, poesia come questa è la prova piú lampante della fine della nostra tradizione, la prova che le sue forme sinfoniche sono state minate dalla modernità, o volutamente come negli scapigliati, o per induzione dalla prosa, come in questi poeti borghesi.

La corrente prosastica deriva soprattutto dal naturalismo, e al naturalismo generalmente conduce[8], ed è positivamente piú nella storia della prosa narrativa che in quella della lirica. Ma negativamente si sente che questa mancanza completa di lirismo (attenti a certe rivendicazioni postume di scrittori come Riccardi di Lantosca, che non ha nulla di crepuscolare! ) è la liquidazione del fare tradizionale e la preparazione di un terreno adatto alle nuove tendenze.

Un certo senso della tradizione romantica, raffinato da dirette influenze di settecenteschi scientificizzanti e classicisti (Cassoli, Savioli, Mazza), ha fatto prendere per impassibilità parnassiana la cura di precisione dell’abate Zanella. Poiché qui non facciamo che scegliere i casi piú tipici del periodo di transizione, par bene accennare nello Zanella al permanere delle forme vecchie maneggiate in maniera da rendere equivoca la loro genuina natura. Nei parnassiani è decadente l’atteggiamento trattenuto, di scorata freddezza, che li guida alla ricerca del preciso e dell’impeccabile, come in una castità amara, stoica, ripiegata su se stessa. Questo, che è l’intimo della poetica parnassiana e che si insalda ideologicamente su di un illuminismo materialista e senza impeti, non trova riscontro nell’ispirazione del buon poeta vicentino, scolaro diligentissimo di una tecnica classicista e di un mediocre sentimentalismo romantico.

Non si può parlare dunque, a non voler sforzare la realtà storica, del periodo predannunziano come di un decadentismo già in atto, ma solo di una preparazione negativa con spunti di nuova sensibilità, di orientamento verso le letterature straniere moderne. Del resto, poiché una vera passività nello spirito non esiste, anche per accogliere le influenze dei poeti stranieri era necessario uno stato d’animo già predisposto favorevolmente: infatti quanti Chiarini e Mazzoni non hanno letto Keats e Coleridge, Baudelaire e Schopenhauer, e pure non hanno saputo vedervi ciò che ora tutti sanno vedervi! E questo terreno capace di dare la nuova poesia si veniva preparando lentamente attraverso la ribellione al nobile castello della tradizione, e i tentativi di europeizzamento e di novità operati dagli spiriti piú irrequieti.

Il tormento di rinnovarsi, acuito dalla paura di rimanere arretrati, con delle vesti fuori moda, è lo stimolo vitale che agisce sugli uomini di quell’Italia postromantica, disorientata dalla propria unità nazionale non ancora intimamente posseduta. E si può seguire in un nobile spirito di poeta, che nel finire del secolo, dopo un’attività giovanile passatista, aveva sentito il bisogno di enunciare il proprio nuovo mondo – suscitato dalla generale irrequietezza e confortato da qualche contatto straniero – con una violenza libertaria che colpí l’aria incerta del momento.

Domenico Gnoli, diventato Giulio Orsini, il vecchio poeta della decrepita accademia romana, che si mette d’un tratto a gridare:

Giace anemica la Musa

sul giaciglio de’ vecchi metri:

a noi, giovani, apriamo i vetri,

rinnoviamo l’aria chiusa![9]

(Apriamo i vetri!)

è come un’immagine rappresentativa di quell’Italia rinchiusa, borghese, che verso la fine del secolo sente la necessità di farsi europea, di diventare moderna. Anche in lui, come in molti dei poeti di transizione che abbiamo citato, ma in grado piú chiaro, la confusione, il compromesso inconscio tra vecchio e nuovo non manca e bisogna soprattutto cogliere oltre l’intenzione di novità un certo senso sprezzante di costruzioni gettate baldanzosamente e illuminazioni che ci fanno sentire lo sforzo con cui si forma la nuova lingua poetica:

Era un gran silenzio, come

d’un cuore che piú non batte,

un senso di cose disfatte,

di cose che non hanno nome;

era una campana dondolante

senza suono dall’alta torre,

era gente che corre, che corre

in giro in giro, ansante ansante...

(Orpheus, Getsemani)

Una maggior libertà di evocazione e un introdursi della sensibilità piú morbida con un senso di trasposizione e di mistero fisico radicale:

sale

una pendula colonna;

un turgido seno di donna,

pieno di luce carnale,

ride ai cieli azzurri...

(Orpheus, Presso l’etrusca fontana)

Non vola l’ala d’un grido...

(Solitudini, Arrivo triste)

Le nuove poesie cominciarono ad uscire nel 1903, e perciò il Croce ci volle trovare delle derivazioni dannunziane, mentre a me par chiaro che, per il suo non raggiunto equilibrio, per lo stato di tentativo, la poesia dell’Orsini sia da mantenersi nel periodo immediatamente predannunziano, ai primi accenni di decadentismo.

Il decadentismo s’annunciava dunque in Italia con un programma di modernità, di europeismo e, quindi, come uno sforzo volitivo, non aiutato da una tradizione remota, sotterranea e tanto piú suggestiva, come in Francia o in Inghilterra. Nasceva come bisogno di completo esaurimento del passato, su di uno squilibrio morale accentuatosi tra l’Italia borghese e professorale, ancora attaccata agli ideali romantici, e le forti esigenze di attivismo moderno, spregiudicato e pugnace. In principio era stata una ribellione confusa, ma a poco a poco si veniva formando quell’atmosfera di relativismo e di spiritualismo adogmatico, che è il piú adatto per il concretarsi di una coscienza decadente. Le ingenue forzature dei Praga, Boito, Tarchetti, stanno per essere sostituite dalla principesca sensualità dannunziana, corrispondente ormai ad un’aria, ad un ambiente raffinato, estetizzante. Le incertezze fra l’affermarsi di un estetismo voluttuoso, sultaneggiante, e la grettezza moralistica dei discendenti immeschiniti dell’ultimo romanticismo, durarono a lungo (si pensi del resto alla Francia in cui la critica universitaria misconobbe costantemente per moltissimo tempo l’originalità dei suoi grandi decadenti e perfino di Baudelaire), dando luogo a polemiche e diatribe, risolte poi quando le esigenze migliori dell’estetismo vennero purificate ed inquadrate in una saldezza filosofica di alta tradizione, nell’Estetica di Benedetto Croce.

Ricordammo le valutazioni del Graf sui decadenti, ricordiamo ora il curioso ed istruttivo libretto Alla ricerca della verecondia[10], raccolta di articoli scambiati in polemica fra Giuseppe Chiarini e Luigi Lodi, Enrico Nencioni ed Enrico Panzacchi. Il primo, in occasione di una sua traduzione di poesie heiniane, se la prese in maniera violenta e grossolana, da moralista senza gusto d’arte, con l’Intermezzo del D’Annunzio, che la sua miopia non aveva presentito nel tanto lodato Canto novo. Il pubblicista Luigi Lodi, satiricamente, rispondeva per le rime, accentuando non tanto la libertà del poeta come tale, quanto la libertà e la sanità del piacere. Entrarono nel dibattito il Panzacchi, che arrivò a dire, per scusare l’erotismo della poesia antica: «Se esaminate ad uno ad uno i pezzi di poema antico, quando porgiate ben attento l’orecchio d’un fatto v’accorgerete sempre: che vi manca la schietta intonazione lirica» (tanto era l’amore per la verecondia da fargli rinnegare la poesia di Saffo e Catullo!), e il Nencioni, la cui perspicacia andava cosí poco addentro da citare Swinburne come poeta casto. Quel libretto è tutto un seguito di pregiudizi e fa capire come da questa incertezza teorica potesse nascere l’estetismo di Angelo Conti e dell’ambiente fine di secolo.

Senza un’idea e un ideale a posto, ma con una sfrenatezza sensuale e una grassa raffinatezza che sembrano il fiore di una civiltà cardinalizia postsecentesca, l’ambiente della Roma improvvisata capitale era il piú propizio per offrire un’atmosfera decadente al poeta che doveva diventare il principe del decadentismo italiano.

Su quella maturità opulenta dell’alta società romana, assente dalla vita della nazione, inetta alla politica, ma non all’intrigo, era naturale un forte alone di profumo esagerato, di raffinatezza sensuale: Carducci, cosí a suo posto nella Bologna professorale erudita, sembrava un intruso a cantare il Campidoglio e le glorie imperiali, civili, in quella Roma in cui il vero programma del maggiore organo letterario, la «Cronaca bizantina», era, secondo le parole di Slataper, «una geniale mondanità, un dilettantismo sensuale, un’eleganza di belle annoiate».

Quell’odore di disfacimento e di opulenza pareva attendere la natura ferina e femminea di Gabriele D’Annunzio.


1 Anche la sua polemica con i romantici non è suggerita, come nei parnassiani, tanto da una cura di valori formali quanto dalla concezione di una bellezza vista civicamente, come sanità spirituale. Un romanticismo energetico e nazionalista «qui pourrait enchanter un érudit, mais non séduire les âmes trop compliquées, trop agitées de la fin du XIX siècle». (Alfred Jeanroy, Giosuè Carducci: l’homme et le poète, Champion, Paris, 1911).

2 Il libro di Cesare De Lollis, Saggi sulla forma poetica italiana dell’800, editi a c. di B. Croce, Laterza, Bari, 1929, è però utilissimo per documentare il contrasto fra il linguaggio della tradizione e i tentativi del nuovo.

3 Si può notare con Piero Nardi (Scapigliatura. Da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, Zanichelli, Bologna, s.d. ma 1924) che il Tarchetti somiglia all’ideale di molti romantici: Werther, René, Obermann, Ortis, Adolphe. Si ricordi la sua celebre terzina:

E nell’orrenda visione assorto,

dovunque o tocchi, o baci, o la man posi,

sento sporger le fredde ossa di un morto.

(Memento)

4 Se in ogni periodo storico le separazioni cronologiche son difficili e spesso arbitrarie, in questo periodo di transizione e di lenta trasformazione sono quasi impossibili.

5 In alcuni un sottile classicismo rinnovato sfiora finezze che paiono decadenti, ma limitate da una sensibilità piú letteraria e meno rarefatta:

E piovevan su me rose disciolte

in lunga pioggia silenziosa e molle:

piovean le rose, e intorno a me le zolle

ne ’l biancor de le rose eran sepolte.

(Enrichetta Capecelatro, Sogno d’alba)

6 In Foscolo, Manzoni, Leopardi, Loescher, Torino, 1898 [ora Einaudi, Torino, 1955].

7 A. Momigliano, Le tendenze della lirica italiana dal Carducci ad oggi, «La Nuova Italia», 20 dicembre 1934 [ora in Introduzione ai poeti, Sansoni, Firenze, 1964].

8 Cfr. in proposito l’introduzione di Luigi Russo ai suoi Narratori, Guide bibliografiche della Fondazione Leonardo, Roma, 1923 [terza edizione integrata e ampliata, Principato, Milano-Messina, 1958].

9 In questi versi io non vedo affatto un tono quasi di scherzo, come ci vede il Croce, La Letteratura della nuova Italia, Laterza, Bari, 1929, IV, p. 159; ma tutt’al piú il ridicolo, per noi, del vecchio infiammato di ardor giovanile.

10 Alla ricerca della verecondia, Sommaruga, Roma, 1884.